La maledizione. Il tema era cosÏ centrale per Verdi, da volerlo inizialmente annunciare, come si è visto, nel titolo stesso dell’opera. In una lettera a Piave del giugno del 1850 scriveva: “Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande al sommo grado [….] Le Vallier [cioè il personaggio che nella versione definitiva sarà il conte di Monterone] non deve comparire (come nel francese) che due volte e dire pochissime parole enfatiche, profetiche”. Quello della maledizione Ë addirittura l’elemento tematico unico su cui è costruito il breve preludio iniziale, tutto giocato sul ribattuto a scansione giambica ricavato dalle parole di Rigoletto prima dell’incontro con Sparafucile: “Quel vecchio m·ledÌvamÌ!”. » un preludio che, con il suo carattere oscuro, incombe: tutta la scena introduttiva, che è pure cosÏ distante per carattere e per sorgenti sonore (se il preludio è stato suonato dall’orchestra in buca, ora la musica proviene dal fondo della scena, da una piccola banda di fiati, ed è tutta balli e danze), non può comunicarci l’idea spensierata che in realtà rappresenta, una festa cortigiana. Sentiamo che quell’aria di festa non è che una semplice e momentanea sospensione del dramma, della tragedia. Il preludio sembra insomma voler proiettare un ponte ideale verso quel nodo cruciale che è la maledizione di Monterone e, soprattutto, la riflessione che fa Rigoletto su quella maledizione: sotto, la festa, con dentro un’orda di figure da branco senza personalità. » un vero motore assoggettante, quella festa, e tutti cantano modellandosi sulle armonie volubili e i ritmi talvolta incerti di galop, minuetti, pedigordini, ballate. Il canto rivela le personalità: personalità da branco quella di chi canta semplicemente adeguandosi al contesto, di chi non esprime melodia propria. Ma sarà cosÏ fino alla male Sparafucile dizione: qui, per la prima volta, sarà l’orchestra ora quella piena, quella della buca, quella che entra nell’anima e nel cuore a piegarsi al canto, e il dramma dell’orchestra sar‡ quello stesso dettato dal canto. Dal preludio alla seconda ripetizione del pensiero fisso, “Quel vecchio maledivami”, prima del duetto RigolettoGilda, passano ben otto scene e un completo cambio di luogo dell’azione (dal palazzo alla via della casa di Rigoletto): eppure l’idea di una forte unit‡ concettuale Ë garantita, proprio da quel ribattuto giambico che lega idealmente il preludio al duetto. Sono queste le novità che Verdi intendeva operare: rivoluzionare le strutture drammaturgiche, le convenzioni unitarie di matrice aristotelica, per dar corso piuttosto a un divenire drammatico unitario, al di l‡ delle frammentazioni di scene ed episodi; superare le forme chiuse di arie e recitativi, per una fluidità musicale e drammatica fatta sÏ di riverberazioni e ritorni, ma comunque sempre in divenire. Il tempo della rappresentazione è un tempo reale, un tempo incalzante e coinvolgente per lo spettatore, senza soste: le stesse arie e i duetti, tradizionalmente deputati a fermare l’azione in quadri viventi di riflessione e di espressione sentimentale, sono qui, quasi sempre, piuttosto degli accenti di tensione emotiva, delle onde di concentrazione psicologica che scorrono con lo scorrere stesso del dramma. Corollario: nulla nell’essenza della narrazione è superfluo. Anche il singolo personaggio ha un suo divenire individuale che interagisce con quello generale del dramma. Prendiamo Rigoletto: il suo canto, fino a poco prima dell’incontro con Gilda, non riesce a svilupparsi in fraseggi melodici compiuti. Franto e inconsistente è il suo melos durante la festa, da comprimario e non da protagonista. Ancora disorganizzato e incerto, ‘parlante’ è il suo incedere melodico nel duetto con Sparafucile o nelle sue solitarie invettive e autocom miserazioni del “Pari siamo!”. Ma qui già vi è un elemento in pi˘: come all’epoca accadeva nello stile del melodramma francese, su questo ‘parlante’ l’orchestra ora si fa carico di una melodia che non sappiamo bene se espressione dell’intimità dell’uomo o dialettica opposizione ad essa. Ma è un’interazione che carica il personaggio di un pathos inedito che prelude a ulteriori sviluppi. Sarà infine la ragazza la vera presenza salvifica, colei che convertir‡ ai dolci accenti, alle melodie distese e nobili: nel duetto “Deh non parlare al misero” odiamo finalmente il primo vero canto di un Rigoletto umanizzato, assolutamente dimentico del perfido e sinistro buffone di corte. Ma la sua indole incerta lo terrà ancora in bilico tra le diverse facce della sua personalit‡ e il suo canto rimarrà sempre il rivelatore primo degli scarti psicologici dell’uomo. Il processo di graduale umanizzazione che si verifica fino all’incontro con Gilda, che può ben rappresentarsi con un andamento vettoriale, non si proietterà d’ora in avanti secondo uno schema semplificabile o prevedibile: di volta in volta, Rigoletto tornerà ad essere il buffone malefico, lo spirito vendicativo o, naturalmente, l’uomopadre premuroso e nobile d’animo. Il bello si pone a fianco del brutto, secondo un’estetica drammatica che Victor Hugo aveva teorizzato nella Prefazione al Cromwell, nel 1827, vero manifesto del teatro romantico, che ebbe certo ascendente su Verdi. Bello e brutto non sono necessariamente due personaggi differenti, ma possono convivere in uno solo, in una dialettica interna tipica della concezione realistica shakespeariana già precedentemente assimilata da Verdi con un’opera come Macbeth. Rigoletto è per Conte di Ceprano sonaggio per eccellenza di questa dialettica: il difforme a fianco del sublime, a formare il grottesco, risorsa nuova e ricca del teatro moderno che, secondo Hugo, “da una parte crea il difforme e l’orribile, dall’altra il comico e il buffonesco”, puntando a elevarsi verso un nuovo concetto di bello, pi˘ ricco, complesso e stimolante rispetto al monolitico bello di accezione classica. Anche il personaggio del duca è tutt’altro che una figura univoca (come qualche critico ha voluto imporcela), quella del solito tiranno libertino, non curante dei sentimenti altrui. Le sfaccettature della sua personalità saranno senz’altro pi˘ smussate rispetto a quelle di Rigoletto, ma non per questo meno complesse e interessanti. Se l’approccio con la contessa nella scena introduttiva era stato melodicamente un semplice assecondare le movenze ritmiche di un minuetto (nulla di proprio, dunque); se la ballata “Questa o quella per me pari sono” era stato pi˘ che un semplice pezzo chiuso, era un canto che voleva rappresentare un canto, effimero e spensierato, l’atto spavaldo di un capobranco: nel duetto con Gilda il duca riesce per la prima volta a dispiegare un valore melodico autentico, vero e appassionato, un canto suo proprio. E cosÏ, e forse ancor pi˘, sarà in “Ella mi fu rapita”, pezzo che Verdi non aveva posto in prima stesura, ma che formulerà più avanti forse proprio per imprimere maggior spessore psicologico a un personaggio troppo importante nella dinamica dell’opera. Tornerà alla spavalderia iniziale solo con “La donna è mobile”, nel terzo atto, quando la distanza da Gilda sarà stata ristabilita nel tempo e nello spazio (e quanta carica drammaturgica avrà, con i suoi ritorni, un’aria come “La donna è mobile”, spesso bistrattata dagli esegeti verdiani!). L’ambiguità psicologica del duca Ë palese: il suo spirito libertino e traditore lo fa odiare a Rigoletto, e con lui ai cortigiani e a noi; ma c’è nel suo animo anche un fondo di autenticità che lo riscatta e lo fa amare a Gilda, e con lei anche a Maddalena e a noi stessi. Chi potrebbe dire di un odio assoluto verso il personaggio del duca? Il suo decorso drammatico è una parabola. Falsità è all’inizio e falsità alla fine: al centro l’impennata umana di uno spirito bisognoso d’amore e pronto a offrire amore. L’opera diventa cosÏ una vera costruzione di sviluppi psicologici differenziati, un contrappunto di caratteri che procedono indipendenti e si intersecano in punti nodali del dramma: la trama psicologica, complessa e irrisolta, di Rigoletto; quella più geometricamente delineata del duca, infine il carattere, questo sÏ pi˘ monolitico, di Gilda, ma che è fondamentale nel suo rappresentare il punto di riferimento ideale di umanità, l’utopia dell’amore, del perdono e della pietà. Ma pur in questa costante e univoca disposizione alla virtù, che ne fa un personaggio quasi convenzionale nella drammaturgia operistica ottocentesca, la personalità di Gilda è resa movimentata e dinamica dallo stesso procedere degli eventi: Ë lei che d‡ di ora in ora forza all’azione in un filo rosso costante, Ë in lei che il dramma agisce, ed è lei che lo subisce in tutta la sua portata dirompente e tragica. Gilda: un vero e proprio tenor in quel fitto contrappunto di personaggi e di storie psicologiche (e bisognerebbe dire ancora di Giovanna, Maddalena, Sparafucile, Monterone) che tramano un tessuto drammatico unitario e compatto; una corrente sotterranea fluida e rigenerante in un mare di onde che assecondano e Contessa di Ceprano onde che risaccano.