Un soggetto davvero crudo e impietoso, studiatamente violento nei contrasti tra i personaggi, dal candore e dalla determinazione eroica di Leonora alla crudeltà di Azucena, per tanti versi imperscrutabile e inaccessibile, sfaccettata com’è tra un presunto sentimento di amor materno e una palese condivisione filiale della necessità di vendetta.
Meno complessa psicologicamente è certamente la figura maschile del Conte di Luna, tutta perennemente protesa al contrasto e al male (i suoi accessi d’amore non sono mai convincenti già dal libretto).
Manrico merita un’attenzione in più: pur monolitico nella sua autopercezione (egli si sente semplicemente un valoroso condottiero-trovatore con forti sentimenti di amore per la sposa e per la madre), risulta tuttavia franto in letture psicologiche differenziate a seconda dei personaggi che lo osservano: per il conte è l’avversario doppiamente in amore e in battaglia, ma se ne ribalterà la prospettiva nella dinamica conclusiva del riconoscimento di una fraternità mancata; per Leonora è l’oggetto d’amore incondizionato; per Azucena, nelle sue altalenanti coloriture psicologiche, è in pari tempo un figlio da amare e, perversamente, uno strumento nonché l’oggetto stesso della sua vendetta. E questa molteplicità di letture si estende amplificata al lettore, all’ascoltatore, al pubblico (che sa che quel personaggio è allo stesso tempo il trovatore, l’amante, Manrico, il fratello, il nemico, il figlio, il non-figlio), e il pubblico finisce per contemplarle contemporaneamente tutte: da lector in fabula, si può così protendere in percorsi di senso imprevedibili e autonomamente costruibili. Se è dunque vero che non senza ragione Il Trovatore è stata ritenuta un’opera sghemba, giacché il rango del personaggio eponimo viene contrastato da quello di altri intrinsecamente di maggior spessore psicologico (vedi Azucena), è anche vero che è proprio quella molteplicità interpretativa tutta esterna al personaggio che ne determina la priorità drammaturgica assoluta, conferendo valore e centralità al titolo.
Al di là della caratterizzazione dei singoli personaggi, è poi lo svolgimento stesso della vicenda che ha il sapore del romanzesco e del selvaggio, un algido gusto notturno, un rifuggire la parafrasi a vantaggio della descrizione diretta e immediata delle situazioni, un’atmosfera sempre corrucciata e violenta. Il sentimento d’amore è pur esso sempre venato di morte e disperazione. » il nuovo che Verdi cercava ora dai suoi libretti. Mai ve n’era stato uno così fosco tra i precedenti. C’era poi il problema della forma poetica. Si è visto come il musicista auspicasse l’eliminazione delle forme chiuse, di cabalette e arie, di duetti e cori o finali: ma probabilmente Cammarano non è ancora pronto a una disposizione fluida e continua, tende inerzialmente alla chiusura delle forme secondo i canoni della tradizione. A questo punto, Verdi agisce dall’interno: se non può scardinare la forma, ne scardina comunque i presupposti della percezione attraverso il senso narrativo che la musica assume su di sé. La prima operazione è la trasformazione di quel pezzo chiuso che è tradizionalmente il preludio in semplice funzione introduttiva di poche battute scarne ed essenziali, che si appoggiano essenzialmente alla figura di Ferrando. Ma poi sono i brani vocali veri e propri che giustificano il loro tradizionalismo formale grazie alla funzione drammaturgica che assumono: un’aria come quella iniziale di Ferrando, Abbietta zingaraî, dove la narrazione torna indietro nel tempo per raccontare i trascorsi della madre di Azucena e del bimbo rapito, rivela subito la sua referenzialità di racconto sospeso tra il romanzesco e il leggendario proprio grazie alla riconoscibilità di una forma che Ë pertinente a quella funzione. CosÏ sarà anche dell’aria di Leonora, ‘Tacea la notte placida’, che assume il significato di sognante ricordo della prima esperienza d’amore. (Verdi ripesca anche nella memoria: i versi ‘Dolci s’udiro e flebili gli accordi di un liuto’ ripetono un motivo già utilizzato in una sua precedente romanza, In solitaria stanza, pubblicata nel 1838 dall’editore Canti di Milano). Ma v’è di più: da una parte il musicista tende a politematizzare le arie per renderle internamente pi˘ dinamiche e variegate, con un risultato drammaturgico certamente di maggiore intensità e pregnanza; dall’altra le investe qua e là di infiltrati sonori alieni, contrastando l’unità interna, minandone spesso la riconoscibilità, e creando zone di trapasso che rompono gli schemi tradizionali e chiusi. Il ‘ Tacea la notte placida’ È introdotto da un andante sognante che risponde, guarda caso, alle parole Come d’aurato sogno’. O, ancora, il passaggio all’Allegro giusto della cabaletta di Leonora, ‘ Di tale amor’, dopo il ‘ Tacea’, Ë inframezzato da figurazioni musicali che non sono più quelle dell’aria, da altri interventi di Ines, spezzando così l’unità formale e donando quella giusta tensione verso la forma aperta che rende all’episodio una naturalezza drammaturgica assolutamente inedita per una forma tradizionale come la cabaletta. Ancora: il famoso coro degli zingari ha tutta l’apparenza di un pezzo di carattere di color locale e non possiamo mettere in dubbio una tale collocazione semantica. Tuttavia Verdi, pur proponendolo in una chiusura formale netta e riconoscibile, lo concepisce secondo un’architettura drammaturgica di più ampio respiro, ponendolo cioè in netta antitesi con ‘ Stride la vampa’, il canto allucinato e tragico di Azucena. Per di più, lo stesso coro tornerà a riproporsi subito dopo, in un movimento di allontanamento che conferisce il sapore dell’eco e, al medesimo tempo, tende a sfilacciare la trama della forma chiusa rendendola semplice lacerto. Si diceva precedentemente dello scarso risalto cromatico di un personaggio come il Conte di Luna. Verdi accentua volutamente con la musica questa decaratterizzazione, la sua impossibilità ad andare oltre la personale natura orientata all’odio e alla vendetta, pur nei momenti in cui vorrebbe accedere a sentimenti positivi d’amore: il suo canto rimane geometricamente angolato, spigoloso, non riesce a flettersi nelle sinuosità melodiche di un cuore palpitante, rimanendo algido e imperturbato. Al contrario, il canto di Manrico, sin dalla sua prima romanza, ‘ Deserto sulla terra’, si fa malleabile, flessibile, ha costantemente un che di ambiguo, sia nel suo ricordare, negli impulsi ritmici e nei modi melodici, i personaggi che lo circondano (per esempio Azucena), sia nell’impianto tonale, con un’instabilità che ricorda le necessità peregrine e nomadi della condizione di zingaro. Ma è anche il Manrico della melodia distesa e curvilinea di ‘Ah sì, ben mio’, quando sta per sposare senza esito Leonora, fino al ritorno focoso e zingaresco del ‘ Di quella pira’. La musica riflette in Manrico proprio quella visione esterna del lector piuttosto che, come si diceva, la monoliticità della sua autopercezione, e in questo Ë da riconoscere la modernità e la novità poetica predicata da Verdi. Il Miserere su cui si staglia il canto di Leonora, con le sue interruzioni, le sue aperture, i suoi contrasti interni, i richiami melodici strazianti, Ë un vero modello di operismo innovativo e rivoluzionario, il punto di incontro di vettori drammaturgici che si risemantizzano e amplificano a vicenda, non solo musicali, ma verbali, teatrali. Fino alla scena finale, con la morte di Leonora, e poi di Manrico, in quel quartetto cosÏ eterogeneo e pur cosÏ unitario, che termina con l’evocazione del truce sentimento filiale da parte di Azucena: desiderio, ancora, di vendetta, o ricusazione di essa in grazia di una sensibilità materna non sopita? La melodia conclusiva della zingara (se ancora di melodia si può parlare), dopo un violento e drammatico salto di ottava, si interrompe su un si bemolle, nota dominante sospensiva e incerta, che non è in grado di dare soluzione al dubbio: Ë il suggello della forma aperta che Verdi ha voluto focalizzare proprio sul tema fondante dell’opera, il sentimento umano della vendetta. Il Trovatore incontrò, la sera del 19 gennaio 1853, un successo senza ombre e divenne l’opera pi˘ amata e conosciuta di Verdi. Aggiungiamo: un capolavoro compiuto e perfetto.