Come si vede, se alcuni topoi tipici della fiaba sono scomparsi, altri certamente rimangono: l’indeterminatezza storica e geografica; la figura dell’eroina moralmente virtuosa, nel suo percorso ascendente dallo stato di sofferenza iniziale fino al trionfo conclusivo, che non conoscerà la vendetta, ma lascerà spazio a sentimenti di bontà e di perdono; il percorso contrario degli antagonisti, falsi eroi, che dai sogni di gloria si ritrovano infine costretti a sopire riluttanti il loro orgoglio; la centralità simbolica del dono-pegno. Non da ultimo, va sottolineato il manicheismo morale, tipicamente fiabesco, che contrappone, senza sfumature chiaroscurali, buoni e cattivi. I personaggi si muovono cosÏ non per dinamiche interne, ma esterne ad essi. Cenerentola è buona e altruista sin dall’inizio per virtù propria, non v’è alcuna evoluzione di carattere: piuttosto è intorno a questa virtù che si sviluppa, dall’esterno, una dinamica di evoluzione sociale che la porterà a essere principessa, da umile serva che era. Allo stesso modo, ma su un registro opposto, le sorellastre continueranno nel loro atteggiarsi vanitoso, frivolo e invidioso fino alla fine, e neanche lo smacco finale le ricondurrà a più virtuosi principi morali: semplicemente, esse subiranno quello smacco, vi soccomberanno, senza però esserne moralmente scalfite. E la musica rende con grande efficacia la staticità psicologica dei personaggi, il loro essere fissi caratteri di un congegno teatrale che in realtà li sovrasta. Cenerentola ha un modo di cantare tutto suo, un fiorito virtuosismo di agilità che rimane se stesso dall’inizio alla fine dell’azione teatrale, pur nella diver- Bozzetto del costume del coro ideato e realizzato da G. Ciacci sità dei temi e delle forme musicali. Quel virtuosismo è, da una parte, resa stilizzata di un tremore dell’ugola tipica dell’anima timorosa e gentile, in preda ai palpiti d’amore; dall’altra, immagine traslata della virtuosità morale del personaggio. Unica eccezione è la sua ricorrente canzone ´Una volta c’era un re, cantata nella semplicità di una melodia popolare, proprio perché lì Cenerentola non sta semplicemente “parlando” [per quanto il parlato sia sempre convenzionalmente cantato nel teatro d’opera] ma sta, appunto, “cantando”. Virtuosismo d’agilità è dunque quello di Cenerentola nel primo duetto con Don Ramiro, ´Un soave non so che, e lo è anche nell’implorazione al patrigno perché la porti al ballo (´Signore, una parola’), nonchè al momento dell’arrivo, velata, alla festa, fi no al ´Nacqui all’affanno, al pianto’, ultimo suo solo. E va detto che anche Don Ramiro si propone con una vocalità virtuosistica molto simile a quella di Cenerentola, quasi a sottolineare l’affinità di carattere e di sentimenti tra i due. Anche quando si riveste di tutta la sua autorità di principe, nei ritmi regali di ´Sì, ritrovarla io giuro’, il canto continua sempre a tradire il suo fondo di palpitanti fioriture. Ma se Don Ramiro è un tenore, voce acuta maschile che risponde pienamente alla tradizione degli eroi teatrali positivi, Cenerentola è invece un contralto, laddove la protagonista femminile sarebbe stata più convenzionalmente rappresentata da una voce di soprano. » evidente che Rossini intende conferire un particolare calore umano alla protagonista proprio attraverso il timbro caldo e morbido del contralto, ponendolo contemporaneamente in antitesi con la vocalità più acuta, stridula si direbbe, di Clorinda e Tisbe: una vocalità senza virtuosismo, e quindi simbolicamente priva di virtuosità morale, che ci presenta con estrema immediatezza il mondo di vanità e frivolezze delle due sorellastre. Anche quella di Don Magnifico è una vocalità, prevalentemente sillabica, senza virtuosismi d’agilità, la vocalità gonfi a e tronfi a di un basso comico, ma che si rende comica non tanto per virtù propria, quanto per quello sfondo strumentale frizzante e leggero che costantemente interviene a deriderla, a canzonarla, che beffeggia lo stesso linguaggio utilizzato dal personaggio, così ricco di buffe locuzioni, possibili solo sulla bocca di uno stolto arrivista: ‘pié baronali’, ‘imprinciparvi’, solo per fare un paio tra gli esempi più significativi. Un linguaggio che Rossini recepisce infine come nonsense, pura e vuota sonorità prestantesi al gioco innocente della musica, ai giochi di allitterazione verbale che prendono via via il sopravvento sul testo. » da qui che nasce il comico. Don Magnifico finisce ogni volta per perdere il controllo della parola, e questa si gonfi a sempre di più come suono, si fa roboante, e si svuota al contempo del suo significato: la musica rende inutile la parola, ne sottolinea la vacuità, cioè a dire la vanità, che è poi la vanità stessa del personaggio che la proferisce. In questo senso, Don Magnifico è un pò il volano di tutto il registro buffo dell’opera (che poi è il registro assolutamente dominante dell’intera opera): lo è per la sua visionarietà boriosa e ingorda, quando racconta del sogno dell’asino alato o quando già si vede in veste di padre di una principessa, ma lo è soprattutto per il suo modo di proporsi musicalmente, con quei crescendo dove la parola si smembra e rimbomba, e il significato si annulla. Quasi tutti i pezzi d’assieme sembrano come inondati dalla vanità di Don Magnifico: i personaggi cantano, sovrapponendosi, testi diversi, il trambusto è tanto, la comprensione pressoché nulla, il tempo dell’azione si blocca e la musica prende la sua strada di assoluta bellezza strumentale (anche le voci possono considerarsi ormai meri strumenti), incurante di testi e personaglibrettogi, che ne escono comicamente a brandelli. Nel sestetto del secondo atto, ´Questo è un nodo avviluppato’, il testo, sin da quel mirabile incipit in imitazione, è proposto in frammenti di sillabe che hanno più il sapore di un pizzicato d’archi che di elocuzione verbale vera e propria. Eppure il testo non perde del tutto un suo portato comunicativo: piuttosto il significato si trasforma, diviene altro rispetto al contenuto originario, e questa alienazione semantica è il fattore primario della comicità rossiniana. In questo modo, gli stessi personaggi perdono in profondità psicologica: evidentemente a Rossini non importa affatto la dinamica psicologica umana; ciò che gli interessa è la forma architettonica dell’opera, un certo modo di strutturare il tempo in funzione comica. Il teatro comico, perché faccia davvero ridere, abbisogna di un’organizzazione ineccepibile dei tempi, dei ritmi, e di una varietà di registri scenico-teatrali che sappiano ben adattarsi a quei ritmi. In tutto questo, i personaggi sono meri caratteri che vengono combinati ora in un modo ora in un altro, in funzione proprio di quella varietà e alternanza di registri, di quella dinamica generale dell’intreccio e della musica che rimane sempre riferimento centrale nel teatro comico rossiniano. In Cenerentola vi è tutto un susseguirsi di giochi combinatori variabili, di complesse geometrie strutturali, sin dalla scelta stessa dei personaggi e dei loro caratteri. Cenerentola, lo si è visto, è figura perfettamente simmetrica a quella di Don Ramiro, sia vocalmente, sia psicologicamente. Ma allo stesso tempo, su un altro piano, a Don Ramiro si affianca idealmente un nuovo corrispettivo simmetrico: Don Magnifico. L’uno e l’altro hanno infatti, da un punto di vista vocale, ciascuno un proprio doppio: Don Magnifico ce l’ha, in tessitura vocale acuta, nelle fi glie (stesso tipo di cantabilità sillabica, oltre che stesso atteggiamento frivolo e vanitoso), che a loro volta vivono esse stesse in raddoppio simbiotico; il doppio di Don Ramiro è invece il suo servo Dandini.» la vocalità virtuosisticamente agile ad accomunare il principe e il suo servo tra questo gioco di caratteri: ma se nel principe è vocalità autentica, perfettamente connaturata al suo animo innamorato e palpitante, essa diventa assolutamente comica con un basso, tanto più se interpreta un semplice cameriere che si ritrova da un momento all’altro in vesti principesche, con tutte l’ampollosità e le altre esagerazioni che gli vediamo usare sin dalla cavatina ´Come un’ape’. La comicità di basso di Dandini è dunque del tutto diversa da quella, sempre di basso, di Don Magnifico: se questa vive di vita propria, quella nasce appunto dal confronto con il personaggio di Don Ramiro, di cui Dandini rappresenta, appunto, il doppio comico. Alidoro, infine, è un personaggio che rimane al di fuori dei giochi di simmetrie e corrispondenze tra le parti. Nell’ambito del plot, è colui che intesse e infarcisce le trame drammatiche degli avvenimenti. Ma è anche colui che, nel quadro generale dell’impianto drammaturgico, interpreta, per cosÏ dire, una funzione metateatrale: quella, cioè, di chi disincanta di tanto in tanto lo spettatore, ricordandogli che è a teatro, e gli evita conseguentemente un troppo diretto coinvolgimento nei fatti rappresentati. In questa funzione, da una parte egli è personaggio tra i personaggi, dall’altra, si erge a ponte comunicativo diretto con il pubblico. Quando è travestito da mendicante, si fa preconizzatore degli esiti del dramma, prima nei confronti di Cenerentola: “Forse il Cielo il guiderdone pria di notte vi daràª; poi, in un “a sè” che sembra isolarlo un pò dall’intreccio: “Nel cervello una fucina sta le pazze a martellar. Ma già pronta è la ruina. Voglio ridere a schiattar”. La funzione metateatrale più evidente è tuttavia nell’aria. “Il mondo è un gran teatro. Siam tutti commediantiª, introdotta da due significativi Bozzetto del costume di Dandini ideato e realizzato da G. Ciacci versi di recitativo: “L’allegrezza e la pena son commedia e tragedia, e il mondo è scena”. Tuttavia fu proprio quest’aria ad essere sostituita da Rossini stesso, nel 1821, con l’altra ´Là nel ciel dell’arcano profondo’: offrendo si, al personaggio, un pezzo di bravura, ma sottraendolo per buona parte a una funzione drammaturgica centrale nell’economia generale dello spettacolo. Per certi aspetti vicino a quello di Alidoro è il ruolo del coro, che si propone anch’esso su registri stilistici diversi: quello del commento a latere, quasi a ricordarci l’antica tradizione tragica greca, oppure quello di personaggio pienamente integrato e coinvolto nelle vicende drammatiche (per esempio, i cavalieri). Il capolavoro rossiniano prende vita dunque dall’abile mescolamento di tutti questi aspetti, da quel fortissimo senso teatrale che sa dosare tempi e ritmi, alternare con buon effetto musicale e teatrale i diversi registri drammaturgici e musicali della vicenda narrata, come anche i singoli personaggi e i loro diversi raggruppamenti. Questa propensione per la costruzione formale determina, viceversa, una sorta di disinteresse per le dinamiche psicologiche dei personaggi, cosa che ha fatto spesso pensare a una tendenza al disimpegno sociale nell’arte rossiniana. Eppure non è cosÏ. In Cenerentola scorgiamo in realtà una forma di denuncia sociale dirompente. » la vanità l’oggetto di quella denuncia. Stendhal, nella sua Vie de Rossini, lamenta il fatto che La Cenerentola non sia altro che l’ennesimo tentativo di fare un’opera sulla vanità. Ed è per questo che l’opera non gli piace: ´Questa musica mi riporta sempre col pensiero ai dolori o ai piaceri della vanità, alla gioia di recarsi al ballo in abito elegante o di essere nominato maggiordomo da un principe. Ora, nato in Francia dove ho a lungo vissuto, confesso che sono stanco della vanità, delle delusioni della vanità, del carattere guascone, dei cinque o seicento vaudevilles che ho dovuto sorbirmi sulle delusioni della vanità. Dopo la morte degli ultimi uomini di genio, d’Eglantine e Beaumarchais, tutto il nostro teatro ruota intorno a un solo movente, la vanità; la società stessa, ameno i diciannove ventesimi della società con tutto quello che racchiude di volgare, è messa in moto da quest’unico movente: la vanità’. Il giudizio è aspro (anche se verrà abbondantemente addolcito da Stendhal nel corso delle pagine successive), ma proprio perché nato da premesse preconcette, da riflessioni troppo legate al momento, al contingente. », al contrario, da quel grande senso dell’architettura del comico, dei suoi equilibri di caratteri e di registri, dei suoi flussi ritmici generali che si dovrebbe prendere spunto per esprimere valutazioni più serene. Se è vero che i singoli numeri rimangono essenzialmente pezzi chiusi, nessuno dei quali dotato di autentica potenzialità innovativa, altrettanto vero è che la struttura generale musicale e drammaturgica è talmente ben dosata e costruita in senso comico da far gridare al capolavoro, un capolavoro di sintesi nella storia di un genere buffo ormai in via di estinzione all’epoca. E quanto più quel capolavoro viene ritenuto eccelso in termini formali, tanto più energica se ne rivela la valenza di denuncia sociale: perché, contro vizi e malcostumi non c’è arma più potente che il comico. Esporli al ridicolo li ridurrà inesorabilmente e irreversibilmente in frantumi.