La Traviata ebbe il suo esordio al Teatro La Fenice di Venezia il 6 marzo 1853, a meno di due mesi dalla prima di Trovatore, che era andato in scena il 19 gennaio di quell’anno al Teatro Apollo di Roma, e a soli due anni da Rigoletto, scritto sempre per La Fenice. I ritmi di lavoro tra il 1851 e il 1853 furono evidentemente serratissimi e ciò di certo favorì quello spirito di comunanza estetica fra le tre opere, che suggerì poi di denominarle collettivamente – e popolarmente – sotto il termine di ´Trilogia’. I primi contatti con La Fenice per La Traviata avvennero attraverso il segretario del teatro, Guglielmo Brenna, che fece visita al compositore a Busseto nell’aprile del 1852 per stabilire i termini del contratto. Il libretto della Traviata fu affidato a Francesco Maria Piave, già vecchio collaboratore di Verdi (aveva precedentemente firmato i libretti di Ernani, I due Foscari, Macbeth, Il corsaro, Stiffelio e Rigoletto): nell’ottobre del 1852, anche dietro sollecito della censura veneziana, il poeta era stato mandato a Sant’Agata dalla direzione della Fenice, di cui era fiduciario, per definire le linee di massima del libretto. In cinque giorni fu buttato giù tutto lo ‘ scenario’. Ma ancora a febbraio la direzione della Fenice aveva dubbi sul procedere della composizione – anche perché Verdi, come vedremo, sembrava un po’ riluttante, mostrando forti perplessità sulla compagnia di canto stabilita da Venezia – e mandò di nuovo Piave e il segretario del teatro a Sant’Agata. Fatti i dovuti chiarimenti, Piave poté completare il libretto e, sul versante compositivo, la realizzazione dello spartito per canto e pianoforte procedette spedita. La partitura per orchestra fu poi terminata a Venezia, dove Verdi si era recato per seguire direttamente la preparazione dei cantanti e le prove. L’esordio si risolse però in un fiasco, che del resto Verdi aveva previsto in una lettera al direttore della Fenice, Carlo Marzari, del 4 febbraio 1853: ´Non solo la Salvini [Fanny Salvini Donatelli, che doveva impersonare Violetta], ma l’intera compagnia è indegna del Gran Teatro La Fenice […] Io dichiaro che nel caso si dia l’opera, non ne spero niente sull’esito, che anzi farà un fiasco completo, e così avranno sacrificati gli interessi dell’impresa (che in fine potrà dire: mea culpa), la mia reputazione, ed una forte somma del proprietario dell’opera. Amen’. Giusto all’indomani della prima, lo stesso compositore scrisse a Emanuele Muzio, suo allievo e amico: ´La traviata, ieri sera fiasco. La colpa è mia o dei cantanti?… Il tempo giudicherà’. La critica fu certamente più indulgente del pubblico, attribuendo a Felice Varesi, nel ruolo di Giorgio Germont, l’insuccesso e risparmiando invece eccessive critiche alla Violetta della Salvini, verso la quale a suo tempo Verdi aveva nutrito i dubbi maggiori.

Ma ci fu il momento della rivalsa: l’anno successivo l’editore e impresario Antonio Gallo offrì a Verdi di riproporre l’opera al San Benedetto di Venezia. Il musicista accettò, ritoccando qua e là la partitura. Il cast fu finalmente all’altezza: Maria Spezia nel ruolo di Violetta, Francesco Landi e Filippo Coletti rispettivamente in quelli di Alfredo e di papà Germont. Un vero trionfo, come scrisse l’editore Ricordi al maestro: ´Insomma bisogna che ti ripeta che non fu esempio mai a Venezia di un successo pari a quello della Traviata, neppure ai tempi del tuo Ernani. Gallo mi scrive che la terza sera fu un diavolezzo d’applausi indescrivibile, e che il terzo atto in ispecie produsse un effetto se è possibile maggiore delle altre due sere, e che dovette anch’egli ringraziare in mezzo agli applausi del pubblico. Cosa nuova, ma che pure è così’. Certo, se la compagnia di canto era stata ora di maggior qualità artistica, non va sottaciuto che anche gli interventi migliorativi dello stesso Verdi erano stati non proprio insignificanti: vari piccoli ritocchi marginali, ma anche qualche pagina strappata e alcuni pezzi sostanzialmente cambiati, soprattutto nel secondo atto. Per non dire, poi, che si mutarono completamente scene e costumi, con un’azione di retrodatazione dell’ambientazione al primo Settecento: ciò avrebbe evitato certo sconcerto del pubblico veneziano (che non era quello parigino!) rispetto a una contemporaneità non proprio facile da accettare tra le convenzioni operistiche del tempo (un mutamento che rimase a lungo nella tradizione ottocentesca degli allestimenti di Traviata).

Il soggetto era senz’altro di successo: benché dramma di ambientazione borghese, tutto sviluppato tra sale, saloni e camere da letto, in verità La Traviata affonda le radici nell’archetipo della donna riscattata per amore, grazie alla rinuncia e al sacrificio: ´La trama del romanzo di Dumas è essenzialmente un mito’ – ci ricorda lo studioso verdiano Julian Budden- ´uno di quei semplici e classici schemi che consentono un numero di varianti non inferiore a quello delle leggende sulle quali i tragici greci costruivano i loro drammi’.

Quel mito-archetipo non rimane affare solo librettistico-drammaturgico: è già tutto nel Preludio del primo atto, in quell’algido trascolorare degli archi nelle prime battute tra diverse tonalità, in quel discendere dai vertici acuti di una trascendenza senza tempo che è aspirazione universale, verso gli approdi dell’umano ritmato che sa accogliere la melodia della passione di Violetta, quell’anticipazione dell’´Amami Alfredo’ del secondo atto, già simbolo del riscatto. Ma sarà sufficiente attendere poche battute e sentire di nuovo quel tema, ora ai soli violoncelli, come contaminato dal contrappunto frivolo e capriccioso dei primi violini, memoria di un passato di peccaminosa leggerezza che impedisce al presente le sue tensioni assolute di verginalità e di purezza. E se anche al termine del Preludio quello stesso indomito contrappunto dei violini sembra appacificarsi nel fisso stringersi attorno a una sola nota, apparente ormeggio di pace interiore, ecco che Verdi, con un gran colpo di teatro, ci precipita di nuovo nel clima frenetico della festa, quasi a riaprire il ciclo e rinviare la catarsi con lo stordimento del vizio. Un vero stordimento, quel tema allegro iniziale che si ripete in forme variate sempre diverse, ora potenti e brillanti, ora più trattenute e dimesse, a seconda delle ondate di umore della festa; o quel motivetto che gira e rigira su se stesso nel mentre si presenta Alfredo a Violetta, e poi ancora seguito, incalzato dal tema iniziale che cresce e si gonfia fino al momento liberatorio del brindisi: un momento liberatorio e contagiante che si diparte dal tripudio privato della coppia dei protagonisti per coinvolgere l’intera massa in un’esultanza collettiva e orgiastica.

Il brindisi è un vero spartiacque drammaturgico, una cesura netta tra due concezioni musicali che ci danno il senso dello sviluppo drammatico che sta avvenendo sulla scena: fin qui i diversi momenti musicali si sono giustapposti l’uno all’altro, in un’organizzazione ‘paratattica’ degli episodi pur nel disordine delle alternanze e nello stordimento delle ripetizioni. Ora la struttura narrativa della musica si fa per così dire è ‘ipotattica’, attraverso piani sonori (musiche in scena e musiche fuori scena, quelle provenienti dalla sala attigua del ballo) che creano dominanze e subordinazioni tra i temi: laddove la psicologia di ciascuno comincia a ispessirsi in chiaroscuri e profondità, il canto si fa ora altro rispetto allo sfondo, realizzando appunto quella tensione dei personaggi verso un’autonomia espressiva che li renderà alfine sempre più profondi e autentici. Alfredo può finalmente dispiegare il suo canto d’amore (´Di quell’amor che palpito’), mentre Violetta è ancora prigioniera della fatuità del suo passato (´Ah se ciò è ver, fuggitemi’), con un canto puntato e saltellante che si contrappunta a quello di Alfredo, ora in netta antitesi, ora con qualche cedimento nell’assecondarlo (per esempio con semplici raddoppi alla sesta), abbandoni che ci chiariscono il maturare di una sintonia di sentimenti tra i due. Basta poco e anche Violetta sembra trovare la sua dimensione più autentica, con un canto che si fa disteso e sentito. Il piano di sfondo della festa ormai non c’è più, eppure è come se fosse ancora presente, creando quell’assenza ansiogena e ingombrante che porterà successivamente Violetta a gridare ´Follie! Follie!’ e quindi a ributtarsi in quel vortice di voluttà del passato che vorrebbe condannarla senza appello (´Sempre libera degg’io folleggiare di gioia’): eppure c’è qualcosa nella melodia, diremmo meglio nel vocalizzo in progressione che fa ´volar il pensier’, che per un attimo drammaticamente ci dice della dissociazione psicologica che sta vivendo la donna, all’inseguimento di una libertà evidentemente priva di gioia.

Nel primo atto Verdi gioca ancora con i cliché, con modelli musicali convenzionali che delineano le forme in modi netti e decisi, benché quel gioco, di giustapposizioni o di intersecazioni, sia estremamente complesso e articolato, condotto a virtuosismi costruttivi che incantano l’ascoltatore. Nella prima parte del secondo atto non c’è più gioco: la musica è ora molto più prossima alla mimesis, entra nel dramma di un’azione che ha abbandonato la dimensione ludica e si è fatta autenticamente passionale. Le forme stesse sfumano i contorni, dando conto di una continuità tra le situazioni senza soluzioni o stacchi: e se v’è qualche aria più o meno chiusa, come ´Pura siccome un angelo’ o ´Di Provenza il mar’, quella chiusura formale diviene il segno dell’ipocrisia e dell’egoismo di un uomo che non sa ancora vedere nel cuore dell’altro. Al contrario, nel duetto tra Giorgio Germont e Violetta, la musica rivela un affinità melodica tra le due parti che deriva evidentemente dal percorso catartico che Violetta sta compiendo e che le permette ormai una comprensione totale delle ragioni dell’altro, pur se queste sono per lei motivo di estrema rinuncia e sacrificio. Non altrettanto in simbiosi melodica è il successivo duetto tra Violetta e Alfredo: del resto le incomprensioni e i fraintendimenti sono ancora tanti.

» nella seconda parte del secondo atto, a casa di Flora, che Verdi torna di nuovo alle forme del gioco: le danze, i cori, i numeri mascherati, autoreferenziali nel loro rappresentare nient’altro che se stessi. Ma il dramma incalza e quegli stessi numeri, nella sospensione temporale e psicologica che generano, non fanno che rendere più angosciosa l’attesa dell’esplosione delle tensioni. Non c’è più la leggerezza di situazioni del primo atto, in cui il coro rimaneva sostanzialmente immune alle esperienze umane dei protagonisti: ora, quelle stesse masse che hanno appena inscenato numeri carnascialeschi e di danza (e che pur così generavano ansia e tensione) si ritrovano pienamente coinvolte nel dramma, ne partecipano le dinamiche in una fusione di sentimenti che commuove proprio per lo spirito di coralità che ne emana.

Se il secondo atto è tensione, è dramma, è esplosione, il terzo si propone come momento supremo di verità: e la verità si accompagna alla malattia e alla morte. La festa, che ancor c’è in lontananza, è solo detta dalle parole (´Tutta Parigi impazza… è carnevale’): e quando è poi detta anche dalla musica, come nel vivacissimo baccanale (´Largo al quadrupede sir della festa’), sembra piuttosto una breve immagine onirica che in un battibaleno si dilegua per lasciar spazio di nuovo al mondo delle cose ultime. Personaggio dopo personaggio, ogni simbolo di falsità, di ipocrisia e leggerezza è bandito. La ´Parigi, o cara, noi lasceremo’ non è canto di pietoso inganno: è piuttosto il simbolo di una bellezza nuova che Alfredo può ora guadagnarsi insieme alla sua amata e ritrovata Violetta, indipendentemente da quanto a lungo ella potrà ancora rimanere con lui. Giorgio Germont è pronto a lasciarsi alle spalle i suoi perbenismi, e finalmente a vivere e sentire le cose nel cuore, finalmente a piangere in prima persona in melodie di dolore e di cordoglio vero. Violetta ha percorso il suo cammino di purezza, ha conquistato la sua verginità eroica, e in questo cammino di sacrificio ha avuto l’energia e il coraggio di redimere e riscattare non solo se stessa, ma anche chi la ha amata.